lunedì, luglio 11, 2005

La cucina nuova

Sono arrivati alle 7,30 del mattino, ingombrando con un enorme camion la strada stretta dove abito. Tra uno strombazzamento e l’altro di automobilisti innervositi da quel colosso, hanno scaricato i mobili, delicatamente, senza fretta, guardando ogni tanto il cielo che pareva annuvolarsi, ed ora alle 3 del pomeriggio, sono ancora qui che mi stanno montando la cucina nuova. E’ bellissima: la guardo, la riguardo, mi allontano a tratti, perché mi sembra di disturbare il loro lavoro faticoso e preciso. E’ bellissima, l’ho tanto desiderata ed è bellissima. Il legno color miele si intona armoniosamente con il pavimento in gres color salmone; si vede che è legno massiccio e non di quel truciolato scadente. Ogni tanto, scorrendo lo sguardo sui pensili, si incontrano dei nodi, segno vivo della provenienza di quelle ante da un albero vero, non dal pressaggio di segature fra due fogli di laminato. Evviva, finalmente una cucina!! Questo mio entusiasmo bambinesco deriva forse dal fatto che non ho mai avuto una vera cucina mia. Quando ci siamo sposati, la nostra cucina era formata da pensili raccolti un po’ qua e un po’ là, con una credenza dal piano in formica color rosso, avanzo di qualche lavoretto fatto da mio suocero, che era falegname. Il vano cucina era poi così piccolo che addirittura non ci stava il tavolo ed avevamo attaccato al muro un pannello che veniva sollevato con un braccio mobile, quando serviva per mangiare, oppure era lasciato giù contro la parete, per non rubare troppo spazio. Andava benissimo così: in quindici mesi ci eravamo conosciuti, innamorati, sposati e non avevamo certo i soldi per arredarci completamente la casa e non avevamo certo voglia di aspettare ancora tanto per vivere insieme. Ricordo con tenerezza i primi pranzetti preparati lì. Io non sapevo cucinare; mia mamma aveva sempre pensato lei e non mi aveva mai coinvolto, né io apparivo interessata a questo aspetto così importante della vita: preparare i pranzi, le cene, le torte, le merende, le colazioni, trafficare con le mani sporche di pasta, frullare uova, assaggiare creme, fondere cioccolate, tutto ciò mi era abbastanza estraneo ed ho imparato, a poco a poco, nel corso degli anni ad apprezzarne l’importanza e la sacralità. Per questo i primi pranzetti a due furono dei veri disastri: fettine di carne simili a suole di scarpe, sughi bruciacchiati, brodini come acqua insipida nella quale galleggiavano stelline anemiche. Con gli anni, devo dire sono molto migliorata, anche se, ancor oggi, quando mi metto ai fornelli sono simile a quelle persone che dicono di essere stonate e quindi non cantano, senza sapere che gli stonati non esistono e che è solo questione di provarci e provarci ancora. Così io mi dico: non sono capace a cucinare e con ciò giustifico tante piccole disattenzioni e tanti piatti senza personalità. Ma nel mio DNA ci deve essere traccia di un grande amore per il cibo e per la sua preparazione. Se chiudo gli occhi, mi ritrovo in un’altra cucina: quella grande, enorme, nella casa di campagna di mia nonna, dove ho passato i primi tre anni di vita. I mobili qui avevano un’importanza relativa. Ricordo solo una credenza di legno intagliato e un’enorme piattaia dove venivano riposti i piatti bianchi con bordino blu. Ricordo una madia dove la mia nonna impastava il pane e un grande lavello in marmo bianco striato di grigio, imponente, solido, eterno. Sotto il lavello una stoffa a fiorellini stile provenzale nascondeva saponi e turchinetto. Poi c’era un enorme tavolo e appese alle pareti pentole, coperchi, mestoli di rame, setacci per farina. Il piano-cottura non era certo di quelli super accessoriati di oggi. Era a legna e assomigliava tanto ai barbecue che teniamo all’aperto in giardino, solo che si trovava in casa e non avendo cappe aspiranti, le pareti erano sempre annerite di fumo. La cucina era il centro del mondo, qui si intrecciavano le vite, i discorsi, i progetti, i dolori di tutti, era il cuore pulsante di quella grande famiglia, in un piccolo paesino dell’entroterra ligure. Ricordo alcuni odori che fanno parte della mia storia e in modo particolare l’odore del minestrone che faceva mia nonna. Alle sei del mattino era già in cucina che tagliava a pezzettini fini fini le verdure del suo orto: fagiolini, zucchine, carote, piselli, fagioli, sedani, patate, cipolle, bietole, erbette di vari tipi, fra cui cime di ortiche, e altre di cui non saprei definire il nome. Mi ricordava un po’ Amelia la fattucchiera - anche se la mia nonna aveva un viso più da fata che da strega- perché la pentola che usava era enorme e lei rimescolava in continuazione quella specie di pozione. Il segreto stava nella pazienza di lasciar cuocere a fuoco lento per ore ed ore, tanto che le verdure si sfaldavano, si fondevano i colori, si intrecciavano le fibre, il liquido diventava consistente e poi quasi solido. Non c’era nessuna premura, nessuna fretta, la mia nonna non doveva correre da nessuna parte. A tratti lasciava il mestolo e prendeva in mano un lavoro di cucito e così alternava due attività estremamente creative che, si vedeva benissimo, le davano grande soddisfazione e senso di appagamento. Dopo qualche ora di rimescolamento si spandeva per tutta la casa un odore che definirei entusiasmante. A questo punto entravano in ballo le croste di formaggio grana, gli avanzi secchi di pezzi grattugiati. La nonna li buttava dentro il pentolone e questi, fondendosi, riempivano l’aria di un aerosol paradisiaco. L’ ultimo ingrediente era il basilico. Questo veniva tritato con una mezzaluna sopra un tagliere di legno oppure pestato dentro un mortaio insieme a formaggio grana ed aglio e quindi veniva aggiunto nel pentolone per gli ultimi minuti di bollore con abbondante olio. Il ricordo di quella specie di nettare degli dei, ancora oggi, mi riempie di commozione e orgoglio insieme. Riapro gli occhi e mi ritrovo nella mia bella cucina nuova. Ora i montatori se ne sono andati ed è tutto così perfetto, da esposizione. E’ bellissima, lo ripeto è bellissima! Sono emozionata, curiosa come un bambino che ha appena spacchettato un nuovo regalo. Apro il forno: è ventilato, posso cuocere insieme una torta e una pizza; i due odori non si mescoleranno. I cassetti scorrono su guide in metallo che li rendono docili ad una lieve spinta della mano. Il lavello è di un nuovissimo materiale color avena, resistente ed inattaccabile dallo sporco. Il frigorifero ha uno spazio enorme per i surgelati: finalmente potrò fare grandi scorte. Ora bisogna inaugurarla! Sono parecchi giorni che mangiamo pane e prosciutto, perché c’è stato un buco nero fra la cucina vecchia e quella nuova, riempito dal lavoro dei muratori che per una settimana hanno imbiancato, stuccato, ripavimentato. Abbiamo voglia di qualcosa di liquido! Richiudo gli occhi: ecco di nuovo l’aerosol paradisiaco che ritorna da un viaggio lungo quasi 50 anni. Ci voglio provare, sì, ci voglio provare, anche se quella magia là rimane impossibile da ripetere. Ci voglio provare e questa volta l’approccio sarà deciso, caldo come un abbraccio della mia nonna. Non sono più stonata, io canto.

MariaTeresa

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