martedì, luglio 12, 2005

UNICO INDIZIO UNA MANCIATA DI CIOCCOLATINI

Improvvisamente il poliziotto si sentì più leggero,come se un piccolo peso gli si fosse staccato di dosso o, a ben pensare, come se avesse depositato a terra una zavorra, un qualcosa che lo affliggeva, un mattoncino che gli impediva una certa levità di percorso.
Sorrise e la bambina contraccambiò con un altro sorriso complice,disarmante e tenerissimo.
Per la prima volta,da quando si erano accorti di lei,parlò e disse al poliziotto sottovoce:-E’ successo anche a te, vero?
-Che cosa?
-Anche tu hai posato un dolore e ti senti più leggero?
-Non so cosa ho posato, ma certo sento un sollievo nel cuore.
-A me sono giorni che succede.
-Che cosa?
-Ogni volta che mangio un cioccolatino,poso a terra dolori ,come borse della spesa stracolme,come zaini pesanti, come valigie senza ruote da trasportare e mi sento un po’ più giovane.
Il poliziotto la guardò stupito e notò che anche per lui questo era incredibilmente vero.
Si sentiva almeno tre anni di meno:i capelli brizzolati erano più scuri e la vista che stava perdendo colpi, era più acuta.
-Da dove vieni?
-Non lo so, ma questa libreria è per me un posto amico; credo di esserci già stata perché conosco la proprietaria e il commesso.Per questo mi sono rifugiata qui per ripararmi dalla pioggia.
-Aspetti qualcuno?
-Sì, ma non so chi.
Il poliziotto si avvicinò alla proprietaria del negozio e riferì la conversazione appena terminata.
Lei,stupita,si sedette sul divanetto e osservò più da vicino quella cucciola smarrita.
Vide i capelli un po’ arruffati di un bel colore cenere, la frangetta sbarazzina,il nasino colante; ma quando lo sguardo si fermò sugli occhi,ebbe un sussulto: erano verdi di un verde color foglia con delle pagliuzze dorate.
Aveva visto solo altri due occhi così e non se gli era più dimenticati sia per la loro bellezza,sia per la malinconia che li velava: erano gli occhi di Lia,una signora sessantenne che frequentava quella piccola libreria ed era diventata sua amica.
Era una divoratrice di libri perché le facevano compagnia,la trasportavano fuori dalla realtà e le facevano dimenticare i suoi tanti dolori.
In effetti tutte le volte che Lia raccontava un po’ della sua vita, le faceva ricordare il biblico Giobbe: malattie,un marito traditore che l’aveva abbandonata con due figli piccoli da crescere, miseria ,umiliazioni e poi i due ragazzi che avevano preso brutte strade,uno peggio dell’altro,e di cui si erano perse le tracce; genitori anziani da accudire, sola senza poter contare sull’appoggio di nessuno,ore di lavoro nelle case come donna delle pulizie,ma soprattutto tanta tanta solitudine, di quella cruda , spietata che lascia senza fiato.
L’ultima volta che era entrata nel negozio aveva raccontato l’ultimo suo dolore: doveva lasciare la casa dove aveva abitato per tanti anni perché la vendevano e lei non aveva i soldi per comprarla.
Anche quello, sì ,anche quello sradicamento la faceva sembrare proprio smarrita.
In quell’occasione la proprietaria della libreria aveva notato che dalle sue tasche spuntava una confezione di cioccolatini e che ogni tanto ne mangiava avidamente uno dicendo:-Mi consola, mi fa star bene,ne vuoi uno anche tu? Magari ti aiuta a sopportare il fallimento della libreria.
Questi cioccolatini sono come carezze di un angelo,sono tocchi leggeri che tolgono un po’ di dolore.
Dunque era lei, era lei!! Ma cosa era successo?
La chiamò per nome e lei sembrò sorpresa.
L’abbracciò:-Lia, Lia ,cosa è successo Lia?
La bambina aprì un sorriso timido ma felice.
-Tu mi conosci?
-Certo che ti conosco,solo che una settimana fa eri un po’ diversa.
-Non so cosa è successo, so che sono entrata qui dentro per ripararmi dal freddo e che qui sono al sicuro.
-Ma non ti ricordi di me?
-No, ma ti sento amica e questo mi basta.
-Vieni con me Lia, vieni con me,adesso chiudiamo il negozio,domani è Natale e tu questo Natale lo passi a casa mia.

lunedì, luglio 11, 2005

Gli sposi

1960
Venivano avanti nella “creuza”, spettacolo insolito per il paese: lei in abito bianco, molto semplice come era la sua persona, lui in abito scuro elegante, camicia bianca e cravatta, ma molto sobrio. Mi sono rimasti impressi per tanti anni perché più che un’immagine reale sembravano un sogno. Siamo usciti fuori sulla porta di casa per vederli meglio ed erano molto belli anche se contenuti e quasi pudichi per quel momento di festa. Il velo di lei si alzava per un po’ di brezza tiepida che agitava l’aria. Lui le camminava accanto deciso e sorridente. Io ero una bambina e questi sposi, da allora, sono stati per me l’immagine di quello che credevo essere il matrimonio: quasi una fiaba, molto semplice, senza alcun lusso e ostentazione, una bella fiaba campagnola.











2004
Apro la porta di casa e me la trovo di fronte sorridente. Ci sposiamo il 20 di giugno,mi dice felice. Ed io, che pensavo fossero già sposati, quei due ragazzi che abitano sul mio pianerottolo da due anni! E’ sicura di sé, mi parla dell’abbazia in riviera dove si terrà la cerimonia, del viaggio di nozze che avrà come meta il Tibet, con tanto di guida privata per salire sulle vette più alte. La vedo così entusiasta che trasmette allegria. Sono una signora che ha superato i 50 anni e mi piace l’idea del matrimonio come viaggio, anche se so che non ci saranno solo alte vette. Prevedo anche qualche abisso, se ho imparato qualcosa dalla vita. Ma tutto ciò rimane solo nel pensiero, spalanco le mie braccia e il mio sorriso. Accolgo il suo entusiasmo quasi come mi fosse figlia: la realtà dell’oggi che irrompe a rivisitar le fiabe.

MariaTeresa

La mia Africa


Per me, che amo il cinema, la visione del film “ La mia Africa” del 1985, con due attori strepitosi come Meryl Streep e Robert Redford, è stata una gioia per gli occhi e ha allargato gli orizzonti della mente. So bene che l’Africa non è solo panorami mozzafiato; so delle sue ferite, dei suoi drammi attraverso i racconti di un caro amico missionario vissuto e morto in Zaire e attraverso le recenti foto di un altro amico medico che presta la sua preziosa opera in Costa D’Avorio. La vigilia di Pasqua ho visto delle immagini della nostra chiesa di Cristo Re riprese in volo da un elicotterista. L’ ho dunque osservata da una prospettiva nuova, dall’alto, dal tetto, uno strano tetto costruito quasi come quello di una grande capanna, di un Tucul. Non so perché, ma ho subito pensato: “ Questa è la mia Africa”. Forse non metterò mai piede in quel continente ma, se voglio, anche qui c’è da fare, anche qui c’è da rimboccarsi le maniche. Non abbiamo panorami mozzafiato: sono solo palazzi e poi ancora palazzi uno attaccato all’altro. Nessuno qui muore per fame o per sete ma ognuno ha ferite, domande e delusioni. Forse sotto quel grande tetto di Cristo Re possiamo trovare delle risposte e forse ognuno di noi può diventare medico e missionario per sé e per gli altri.
Se vogliamo …


Maria Teresa

La cucina nuova

Sono arrivati alle 7,30 del mattino, ingombrando con un enorme camion la strada stretta dove abito. Tra uno strombazzamento e l’altro di automobilisti innervositi da quel colosso, hanno scaricato i mobili, delicatamente, senza fretta, guardando ogni tanto il cielo che pareva annuvolarsi, ed ora alle 3 del pomeriggio, sono ancora qui che mi stanno montando la cucina nuova. E’ bellissima: la guardo, la riguardo, mi allontano a tratti, perché mi sembra di disturbare il loro lavoro faticoso e preciso. E’ bellissima, l’ho tanto desiderata ed è bellissima. Il legno color miele si intona armoniosamente con il pavimento in gres color salmone; si vede che è legno massiccio e non di quel truciolato scadente. Ogni tanto, scorrendo lo sguardo sui pensili, si incontrano dei nodi, segno vivo della provenienza di quelle ante da un albero vero, non dal pressaggio di segature fra due fogli di laminato. Evviva, finalmente una cucina!! Questo mio entusiasmo bambinesco deriva forse dal fatto che non ho mai avuto una vera cucina mia. Quando ci siamo sposati, la nostra cucina era formata da pensili raccolti un po’ qua e un po’ là, con una credenza dal piano in formica color rosso, avanzo di qualche lavoretto fatto da mio suocero, che era falegname. Il vano cucina era poi così piccolo che addirittura non ci stava il tavolo ed avevamo attaccato al muro un pannello che veniva sollevato con un braccio mobile, quando serviva per mangiare, oppure era lasciato giù contro la parete, per non rubare troppo spazio. Andava benissimo così: in quindici mesi ci eravamo conosciuti, innamorati, sposati e non avevamo certo i soldi per arredarci completamente la casa e non avevamo certo voglia di aspettare ancora tanto per vivere insieme. Ricordo con tenerezza i primi pranzetti preparati lì. Io non sapevo cucinare; mia mamma aveva sempre pensato lei e non mi aveva mai coinvolto, né io apparivo interessata a questo aspetto così importante della vita: preparare i pranzi, le cene, le torte, le merende, le colazioni, trafficare con le mani sporche di pasta, frullare uova, assaggiare creme, fondere cioccolate, tutto ciò mi era abbastanza estraneo ed ho imparato, a poco a poco, nel corso degli anni ad apprezzarne l’importanza e la sacralità. Per questo i primi pranzetti a due furono dei veri disastri: fettine di carne simili a suole di scarpe, sughi bruciacchiati, brodini come acqua insipida nella quale galleggiavano stelline anemiche. Con gli anni, devo dire sono molto migliorata, anche se, ancor oggi, quando mi metto ai fornelli sono simile a quelle persone che dicono di essere stonate e quindi non cantano, senza sapere che gli stonati non esistono e che è solo questione di provarci e provarci ancora. Così io mi dico: non sono capace a cucinare e con ciò giustifico tante piccole disattenzioni e tanti piatti senza personalità. Ma nel mio DNA ci deve essere traccia di un grande amore per il cibo e per la sua preparazione. Se chiudo gli occhi, mi ritrovo in un’altra cucina: quella grande, enorme, nella casa di campagna di mia nonna, dove ho passato i primi tre anni di vita. I mobili qui avevano un’importanza relativa. Ricordo solo una credenza di legno intagliato e un’enorme piattaia dove venivano riposti i piatti bianchi con bordino blu. Ricordo una madia dove la mia nonna impastava il pane e un grande lavello in marmo bianco striato di grigio, imponente, solido, eterno. Sotto il lavello una stoffa a fiorellini stile provenzale nascondeva saponi e turchinetto. Poi c’era un enorme tavolo e appese alle pareti pentole, coperchi, mestoli di rame, setacci per farina. Il piano-cottura non era certo di quelli super accessoriati di oggi. Era a legna e assomigliava tanto ai barbecue che teniamo all’aperto in giardino, solo che si trovava in casa e non avendo cappe aspiranti, le pareti erano sempre annerite di fumo. La cucina era il centro del mondo, qui si intrecciavano le vite, i discorsi, i progetti, i dolori di tutti, era il cuore pulsante di quella grande famiglia, in un piccolo paesino dell’entroterra ligure. Ricordo alcuni odori che fanno parte della mia storia e in modo particolare l’odore del minestrone che faceva mia nonna. Alle sei del mattino era già in cucina che tagliava a pezzettini fini fini le verdure del suo orto: fagiolini, zucchine, carote, piselli, fagioli, sedani, patate, cipolle, bietole, erbette di vari tipi, fra cui cime di ortiche, e altre di cui non saprei definire il nome. Mi ricordava un po’ Amelia la fattucchiera - anche se la mia nonna aveva un viso più da fata che da strega- perché la pentola che usava era enorme e lei rimescolava in continuazione quella specie di pozione. Il segreto stava nella pazienza di lasciar cuocere a fuoco lento per ore ed ore, tanto che le verdure si sfaldavano, si fondevano i colori, si intrecciavano le fibre, il liquido diventava consistente e poi quasi solido. Non c’era nessuna premura, nessuna fretta, la mia nonna non doveva correre da nessuna parte. A tratti lasciava il mestolo e prendeva in mano un lavoro di cucito e così alternava due attività estremamente creative che, si vedeva benissimo, le davano grande soddisfazione e senso di appagamento. Dopo qualche ora di rimescolamento si spandeva per tutta la casa un odore che definirei entusiasmante. A questo punto entravano in ballo le croste di formaggio grana, gli avanzi secchi di pezzi grattugiati. La nonna li buttava dentro il pentolone e questi, fondendosi, riempivano l’aria di un aerosol paradisiaco. L’ ultimo ingrediente era il basilico. Questo veniva tritato con una mezzaluna sopra un tagliere di legno oppure pestato dentro un mortaio insieme a formaggio grana ed aglio e quindi veniva aggiunto nel pentolone per gli ultimi minuti di bollore con abbondante olio. Il ricordo di quella specie di nettare degli dei, ancora oggi, mi riempie di commozione e orgoglio insieme. Riapro gli occhi e mi ritrovo nella mia bella cucina nuova. Ora i montatori se ne sono andati ed è tutto così perfetto, da esposizione. E’ bellissima, lo ripeto è bellissima! Sono emozionata, curiosa come un bambino che ha appena spacchettato un nuovo regalo. Apro il forno: è ventilato, posso cuocere insieme una torta e una pizza; i due odori non si mescoleranno. I cassetti scorrono su guide in metallo che li rendono docili ad una lieve spinta della mano. Il lavello è di un nuovissimo materiale color avena, resistente ed inattaccabile dallo sporco. Il frigorifero ha uno spazio enorme per i surgelati: finalmente potrò fare grandi scorte. Ora bisogna inaugurarla! Sono parecchi giorni che mangiamo pane e prosciutto, perché c’è stato un buco nero fra la cucina vecchia e quella nuova, riempito dal lavoro dei muratori che per una settimana hanno imbiancato, stuccato, ripavimentato. Abbiamo voglia di qualcosa di liquido! Richiudo gli occhi: ecco di nuovo l’aerosol paradisiaco che ritorna da un viaggio lungo quasi 50 anni. Ci voglio provare, sì, ci voglio provare, anche se quella magia là rimane impossibile da ripetere. Ci voglio provare e questa volta l’approccio sarà deciso, caldo come un abbraccio della mia nonna. Non sono più stonata, io canto.

MariaTeresa